L’ultimo dei concerti proposti dall’Archivio musicale “Guido Alberto Fano” alle Sale Apollinee del Teatro La Fenice di Venezia ha visto il 22 giugno 2011 Lorenzo Regazzo impegnato nell’interpretazione di una serie di canzoni veneziane, accompagnate al pianoforte da Dimitri Romano.
(locandina)
La bravura di Lorenzo non è solo nella tecnica vocale sopraffina, che gli permette di plasmare i suoni con varie sfumature dinamiche in tutta la gamma, senza mai perdere il “fuoco” di una vocalità tutta italiana, brillante ma ricca di profondità e peso vocale; la bravura di Lorenzo non è nemmeno solo nella smaliziata arte dell’interpretazione che, facendo uso delle sfumature musicali e vocali come pure dei gesti, delle espressioni del viso e persino delle “mossette” del corpo, traduce il testo, chiarificando non solo il significato esplicito, ma anche il sottotesto e i significati solo allusi; la bravura di Lorenzo è anche nell’aver riannodato i fili di una tradizione musicale, compilando un programma che presto diverrà un CD registrato da Stradivarius.
Il programma riunisce molti brani vocali da camera, con l’esuberante Rossini affiancato a compositori veneziani considerati “minori”. Eppure, grazie alla chiarezza dell’interpretazione di Lorenzo, anche attraverso testi poco noti sembra di rivivere quella civiltà che per secoli è fiorita nella città lagunare, conosciuta perlopiù attraverso le commedie di Goldoni, o i quadri di Longhi. E proprio grazie all’intelligenza nella scelta dei brani e all’acume dell’interpretazione mi è sembrato di poter sperare in una salvezza della civiltà – anche musicale – veneziana, oggi vittima di una mercificazione che svende le “Quattro stagioni” o l’ “Opera a palazzo” come fossero paccottiglia finto-vetro-di-Murano (made in China!), e che rifila ai venti milioni di turisti all’anno serenate in gondola in cui anche la ben poco locale canzone napoletana ormai ha lasciato il posto agli evergreen della canzone di Sanremo, e dove i musicisti ambulanti (perlopiù ex-profughi della ex-Jugoslavia) questuanti nelle centinaia di pizzerie e ristoranti “tipici veneziani” forniscono versioni “balcanizzate” di un repertorio che definire “popolare” suona offensivo, per chi conosca anche superficialmente le ricerche dell’etnomusicologia.
Per contro il concerto ha indicato – per la capacità di ridar vita a quel modo di pensare e di essere intrecciato di arguzia, libertinismo e spregiudicatezza che ha caratterizzato la civiltà veneziana – una strada da seguire, divenendo un esempio di “ecologia musicale”.
Negli stessi giorni del concerto ho letto il libro “Tradizioni e regate della vela al terzo” di Silvio Testa, con le illustrazioni di Alex Pagnacco (edizioni Mare di carta, 2011). Il recupero delle barche tradizionali della laguna, con il loro armo “al terzo”, è un tentativo riuscito di ridar vita ad una civiltà – quella marinara – di cui Venezia è stata parte e propulsore, all’interno del bacino del Mediterraneo. Salvare barche che si chiamano “s-ciopòn”, “mascareta”, “topo”, è salvare anche le parole che servono ad indicare le tecniche di navigazione (“a la bona”, “a dare-dosso”), o le parti costruttive (“el mante”, “l’antenèa”).
Ecco, anche veleggiare “al terzo” è fare ecologia: non solo per l’ambiente lagunare razziato da pescatori senza scrupoli e sfregiato da migliaia di barche e barchini a motore, spesso condotti senza alcuna cultura marinara e senza alcun rispetto per l’ambiente, ma – come nel caso del concerto di Lorenzo Regazzo – ridar vita a pratiche desuete o quasi sepolte è un modo per fare “ecologia di una civiltà”.
“Venezia salva” è una tragedia di Simone Weil che racconta una congiura spagnola del Seicento ai danni della città, fortunatamente sventata per gli scrupoli di coscienza di un uomo giusto: speriamo che anche oggi la Serenissima possa salvarsi grazie ai suoi figli, siano essi velisti o… musicisti!